LA PREOCCUPAZIONE INDIANA PER IL CBAM
Player globale, simbolo di uno sviluppo economico possibile, ma di una transizione ambientale assente, l’India è il terzo produttore mondiale di anidride carbonica, dopo Cina e USA. E gli studi interni più recenti vedono una crescita delle emissioni fino al 50% entro il 2030, allontanando la neutralità nel 2070. E il CBAM unionale, proprio non piace…
Che il Paese sia attivo in tema di relazioni internazionali, è fuori di dubbio; i colloqui ripresi con la UE, la proattività nel G20, le relazioni intrecciate con i mercati i timidi passi di avvio di una transizione ambientale, considerato come l’aliquota indiana sul carbonio sia attualmente tra le più basse al mondo, pari a soli 1,6 dollari per tonnellata di emissioni di CO2. Mentre il CBAM EU style spaventa, eccome; molti funzionari governativi lo considerano discriminatoria, una barriera commerciale che colpirebbe non solo le esportazioni indiane, ma anche quelle di molti altri Paesi in via di sviluppo; preoccupazioni condivise dalla WTO, atteso come l’India abbia già aderito ai protocolli dell’accordo sul clima di Parigi per diventare carbon neutral entro il 2070. E considerato come, nel 2022, il 27% delle esportazioni indiane di prodotti in ferro, acciaio e alluminio, per un valore di 8,2 miliardi di dollari, abbia navigato verso i lidi unionali, la diffidenza verso il nuovo sistema impositivo appare più che fondata. Il governo indiano oscilla tra la tentazione di una denuncia del CBAM unionale alla WTO e la necessità di proseguire i colloqui con l’Unione europea, così da individuare una soluzione amichevole della querelle. Una sfida per le industrie indiane e una spinta verso una transizione energetica e verde più veloce: la finalità del CBAM, in India, è un goal pienamente conseguito.