FATTURA SEMPRE PER I BENI CEDUTI IN DEPOSITO DOGANALE
Le cessioni di beni mobili si considerano effettuate nel territorio dello Stato a due condizioni: che i beni abbiano la qualifica di beni nazionali, comunitari o vincolati al regime della temporanea importazione e che siano esistenti nel territorio dello Stato. Ma cosa accade se oggetto di cessione sono beni introdotti in deposito doganale?
Esistenza nel territorio dello Stato e status giuridico di bene nazionale o unionale: le due condizioni alla base della imposizione, ai fini Iva, dei beni mobili sono chiaramente desumibili dall’interpretazione letterale della relativa disposizione di cui al D.P.R. n. 633/72. Cosa accade se un bene è fisicamente presente sul territorio italiano, ma non ha il carattere di bene unionale? Pensiamo al caso di beni vincolati al regime di transito unionale o di deposito doganale: i beni sono introdotti in Italia, ma non sono stati oggetto di importazione e, quindi, come si suol dire, si trovano ancora allo stato estero. In questa ipotesi, le cessioni dei beni si considerano effettuate fuori dal territorio dello Stato, quindi prive del presupposto della territorialità (il quale, insieme ai due presupposti soggettivo e oggettivo, contemporaneamente esistenti, identifica gli atti soggetti a imposta). Nihil novum sub sole, direte voi; ma l’Agenzia delle Entrate ha ritenuto di dover pubblicare un apposito principio di diritto per affermare come l’assenza del requisito di territorialità non comporti il venir meno dell’obbligo di fatturazione di tali beni. Le disposizioni in materia, infatti, impongono l’obbligo di fatturare le cessioni operate all’interno dei depositi doganali situati in Italia, indipendentemente dalla qualifica del soggetto cedente (stabilito o meno nel territorio dello Stato): qualcuno aveva dubbi in proposito?
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